La Penitenza


Mercoledì delle Ceneri
La Penitenza
«Pentitevi, dunque, e convertitevi, affinchè siano cancellati i vostri peccati»
(Atti 3,19).

Ecco, fratelli miei, la sola risorsa che san Pietro annuncia ai Giudei, colpevoli della morte di Gesù Cristo.

«Sì, fratelli miei, dice loro questo grande apostolo, il vostro crimine è orribile, poichè avete abusato della predicazione del Vangelo e degli esempi di Gesù Cristo, avete disprezzato i suoi benefici e i suoi prodigi, e, non contenti di tutto ciò, voi lo avete rigettato e condannato alla morte più crudele e più infame.

Dopo un tale crimine, quale risorsa vi può restare, se non quella della conversione e della penitenza?».

A queste parole, tutti coloro che erano presenti, si effusero in lacrime e gridarono:
«Ahimè! che faremo, o grande apostolo, per ottenere misericordia?».

San Pietro, per consolarli, disse loro:
«Fratelli miei, non vi disperate; lo stesso Gesù, che voi avete crocifisso, è risuscitato, e, ancor più, Egli è divenuto la salvezza di tutti coloro che sperano in Lui; Egli è morto per la remissione di tutti i peccati del mondo.
Fate penitenza e convertitevi, e i vostri peccati saranno perdonati».

Ecco, fratelli miei, il medesimo linguaggio che la Chiesa adopera verso tutti i peccatori che sono colpiti dalla grandezza dei loro peccati, e che desiderano ritornare sinceramente a Dio.

Ahimè! fratelli miei, quanti tra noi sono molto più colpevoli dei giudei, poichè quelli fecereo morire Gesù Cristo solo per ignoranza!
Ma quanti di noi hanno rinnegato e condannato Gesù Cristo a morte, a causa del disprezzo che abbiamo verso la sua santa Parola, della profanazione che abbiamo fatto dei suoi misteri, o a causa dell’omissione dei nostri doveri, o per l’abbandono dei sacramenti, e per un profondo oblio di Dio e della salvezza della nostra povera anima!

Ebbene! fratelli miei, quale rimedio ci può restare in questo abisso di corruzione e di peccato, in questo diluvio che insozza la terra, e che provoca la vendetta del Cielo?
Nessuno, fratelli miei, se non quello della penitenza e della conversione.

Ditemi, non sono già abbastanza gli anni trascorsi nel peccato?
Non è abbastanza il tempo in cui siamo vissuti per il mondo e per il demonio?
Non è tempo, fratelli miei, di vivere per il buon Dio, e per assicurarci una eternità felice?

Che ciascuno di noi, fratelli miei, si rimetta la sua vita davanti agli occhi, e vedremo che abbiamo tutti bisogno di fare penitenza.

Ma per indurvi a ciò, fratelli miei, vi mostrerò come le lacrime che spargiamo sui nostri peccati, il dolore che sentiamo, e le penitenze che facciamo, ci consolino e ci rassicurino nell’ora della morte.

In secondo luogo, vedremo che dopo aver peccato, dobbiamo fare penitenza, o in questo mondo o nell’altro.

In terzo luogo, esamineremo in che modo occorra mortificarsi, per fare penitenza.

Noi affermiamo, fratelli miei, che non c’è nulla che ci consoli di più, durante la nostra vita, e che ci rassicuri di più nell’ora della morte, delle lacrime che versiamo sui nostri peccati, o del dolore che proviamo e le penitenze che facciamo: ciò che risulta molto facile da capire, poichè è per mezzo di queste cose che noi abbiamo la fortuna di espiare i nostri peccati, e cioè di soddisfare alla giustizia di Dio.

Sì, fratelli miei, è per mezzo di tutto ciò che meritiamo nuove grazie, per avere la fortuna di perseverare.

Sant’Agostino ci dice che è necessario, in maniera assoluta, che il peccato sia punito o da colui che lo ha commesso, o da colui contro il quale è stato commesso.

«Se non volete, egli ci dice, che il buon Dio vi punisca, punitevi da soli».

Vediamo che Gesù Cristo stesso, per mostrarci quanto la penitenza ci sia necessaria dopo il peccato, si mette nel rango dei peccatori.

Egli ci dice che, senza il battesimo, nessuno entrerà nel Regno dei Cieli; e, in un altro luogo, ci dice che se non facciamo penitenza, noi periremo tutti.

Dopo che l’uomo ha peccato, tutti i suoi sensi si sono rivoltati contro la ragione, e, di conseguenza, se vogliamo che la carne sia sottomessa allo spirito e alla ragione, dobbiamo mortificarla.
Se vogliamo che il nostro corpo non faccia la guerra alla nostra anima, dobbiamo mortificarlo in tutti i suoi sensi; se vogliamo andare a Dio, dobbiamo mortificare la nostra anima, con tutte le sue potenze.

E se volete convincervi a fondo della necessità della penitenza, non dovete fare altro che aprire la Sacra Scrittura, e vedrete che tutti coloro che hanno peccato e hanno voluto ritornare al buon Dio, hanno dovuto versare lacrime, si sono pentiti dei loro peccati, e hanno fatto penitenza.

Vedete Adamo: da quando ebbe peccato, si dedicò alla penitenza, per riuscire a piegare la giustizia di Dio.
La sua penitenza durò più di novecento anni, e fu una penitenza da far tremare, tanto sembrava al di sopra delle forze della natura.

Guardate Davide, dopo il suo peccato: egli faceva riecheggiare il suo palazzo delle sue grida e dei suoi singhiozzi, ed egli portò i suoi digiuni a un tale eccesso, che i suoi piedi non potevano sostenerlo.

Quando si voleva consolarlo, dicendogli che, siccome il Signore lo aveva assicurato che il suo peccato gli era stato perdonato, avrebbe dovuto moderare il suo dolore, egli gridava:
«Ah! disgraziato, che cosa ho fatto? Ho perduto il mio Dio, ho venduto la mia anima al demonio; ah! no, no, il mio dolore durerà quanto la mia vita, esso scenderà con me nella tomba».
Le sue lacrime colavano con tanta abbondanza, che il suo pane ne era inzuppato, e il suo letto ne era inumidito.

San Pietro... (il testo si interrompe; n.d.a).

Perchè, fratelli miei, abbiamo tanta ripugnanza per la penitenza, e nutriamo così poco dolore per i nostri peccati?
Ahimè! fratelli miei, è perchè non conosciamo nè gli oltraggi che il peccato fa a Gesù Cristo, nè i mali che ci prepara per l’eternità.

Noi siamo convinti che, dopo il peccato, bisogna necessariamente fare penitenza.
Ma ecco cosa facciamo: rimandiamo tutto a un tempo molto lontano, come se fossimo padroni del tempo e delle grazie del buon Dio.

Ahimè! fratelli miei, chi di noi, trovandosi nel peccato, non tremerà, visto che possiamo disporre solo di un momento, quello presente?

Ahimè! fratelli miei, chi di noi non fremerà, pensando che è stabilita una misura di grazia, dopo la quale il buon Dio non ne accorderà più?

Chi di noi non fremirà, pensando che c’è una misura di misericordia, dopo la quale tutto è finito?
Ahimè! chi di noi non fremerà, pensando che vi è un certo numero di peccati, dopo i quali il buon Dio abbandonerà il peccatore a se stesso?
Ahimè! fratelli miei, quando la misura è piena, dovrà traboccare.

Sì, dopo che il peccatore avrà esaurito tutte queste risorse, dovrà essere punito, e dovrà piombare all’inferno, nonostante le lacrime e il dolore...

Credete forse, fratelli miei, che dopo esservi rotolati, trascinati e bagnati nelle impurità e nelle più infami passioni; credete forse, fratelli miei, che dopo essere vissuti per tanti anni nel peccato, malgrado tutti i rimorsi che la vostra coscienza vi ha suggerito, per farvi ritornare a Dio; credete forse, fratelli miei, che dopo essere vissuti da empi e da libertini, disprezzando tutto ciò che la religione ha di più santo e di più sacro, vomitando contro di essa tutto ciò che la corruzione del vostro cuore abbia potuto produrre; credete voi forse che, quando deciderete di dire: «Mio Dio, perdonami», avrete risolto tutto, e che non vi resterà che entrare nel Cielo?

No, no, fratelli miei, non siamo così temerari, nè così ciechi da sperare ciò.

Ahimé! fratelli miei, è precisamente in quel momento che si compirà quella promessa di Gesù Cristo che ci dice:
«Voi mi avete disprezzato durante la vostra vita, voi vi siete scherniti delle mie leggi, ma adesso che volete ricorrere a me, che mi volete cercare, io vi volterò le spalle, per non vedere le vostre disgrazie; Io mi tapperò le orecchie per non ascoltare le vostre grida; fuggirò lontano da voi, per timore di lasciarmi commuovere dalle vostre lacrime» (Non si tratta di un brano del Vangelo, ma di brani tratti dai profeti; n.d.a.).

Ahimè fratelli miei, per convincerci di tutto ciò, non dobbiamo fare altro che aprire la Sacra Scrittura, e la storia in cui sono racchiuse le azioni di certi famosi empi.
Ci accorgeremo che i castighi loro riservati, sono più terribili di quanto si pensi.

Ascoltate il famoso empio Antioco.
Vedendosi colpito in una maniera ben visibile dalla mano dell’Onnipotente, egli si umilia, e piange dicendo: «E’ giusto, Signore, che la creatura riconosca il suo Creatore» (2 Maccabei 9,12).
Egli promette a Dio di fare penitenza, di riparare tutto il male che ha fatto durante la sua vita, tutti i danni che ha procurato a Gerusalemme, e promette che donerà molti beni per allestire il culto del Signore, e che aderirà al giudaismo; insomma, che tutta la sua vita sarà rispettosa della Legge di Dio.

Se lo aveste sentito, avreste detto rallegrandovi: ecco un penitente, che sembra un santo penitente.

Tuttavia ascoltiamo lo Spirito Santo che ci dice:
«Questo empio domanda un perdono, che non gli sarà accordato; egli piange, ma, piangendo discende agli inferi».

Ma perchè, fratelli miei, andare così lontano, per trovare esempi terribili della Giustizia di Dio verso il peccatore che ha disprezzato le grazie di Dio? (si ricordi che la severità, a volte estrema, del santo, ha di mira, sempre, il peccatore “ostinato” e incallito nel male, e mai, invece, chi pecca per fragilità e poi si pente; per questi ultimi il curato ha parole di misericordia e di comprensione, a volte perfino paradossali; n.d.a.).

Vi basti vedere lo spettacolo che ci hanno presentato questi empi, questi increduli e questi libertini dell’ultimo secolo; guardate la loro vita empia, incredula e libertina (siamo all’epoca della cosiddetta rivoluzione francese, che per fratellanza, intendeva la condanna alla ghigliottina, per uguaglianza, la creazione di nuovi poveri e nuovi ricchi, e per libertà, la dittatura del pensiero dominante; n.d.a.).

Non sono forse vissuti, costoro, da empi, con la speranza che il buon Dio li avrebbe perdonati, quando avessero deciso, da parte loro, di chiedere perdono?

Guardate Voltaire. Tutte le volte che cadeva ammalato, non chiedeva foese misericordia, non chiedeva forse perdono a quello stesso Dio che egli insultava quando era in salute, e contro il quale non smetteva di vomitare tutto ciò che la corruzione del suo cuore poteva generare?

D’Alembert, Diderot, e Jean-Jacques Rousseau, insieme a tutti i loro compagni di libertinaggio, presumevano che, quando fosse stato di loro gusto domandare perdono a Dio, essi sarebbero stati perdonati; ma noi possiamo dire loro ciò che lo Spirito Santo disse ad Antioco: «Questi empi domandano un perdono che non può essere concesso loro».

E perchè, fratelli miei, questi empi non sono stati perdonati, malgrado le loro lacrime?
E’ perchè il loro dolore non derivava dal pentimento, nè dal dispiacere dei loro peccati, nè dall’amore di Dio, ma soltanto dal timore del castigo.

Ahimè! fratelli miei, per quanto terribili e spaventose siano queste minacce, esse non fanno aprire gli occhi a coloro che camminano sulla stessa strada.
Ahimè! fratelli miei, com’è disgraziato e cieco colui che essendo peccatore ed empio, conserva la speranza che un giorno cesserà di esserlo! (si intende: per una sorta di automatismo; n.d.a.).

Ahimè! fratelli miei, quanti il demonio ne conduce all’inferno, in questo modo!
La Giustizia di Dio li colpisce nel momento in cui non ci pensano neppure lontanamente.

Guardate Saul, egli non sapeva che, burlandosi degli ordini che gli dava il profeta, avrebbe messo il sigillo alla propria riprovazione, e che sarebbe stato abbandonato da Dio.

Guardate Amàn: avrebbe mai pensato che al patibolo che stava preparando per Mardocheo, sarebbe stato appeso lui stesso, per perdere la vita?

Guardate il re Balthazar: pensava forse che il crimine che stava commettendo, bevendo nei vasi sacri che suo padre aveva rubato a Gerusalemme, sarebbe stato l’ultimo crimine che Dio gli avrebbe lasciato commettere?

Guardate ancora i due infami vecchi: avevano il minimo dubbio del mondo che, tentando la casta Susanna, sarebbero stati lapidati e dopo sarebbero piombati all’inferno?
No, senza dubbio.
Tuttavia, fratelli miei, sebbene questi empi e questi libertini non immaginassero nulla di tutto ciò, ciò non toglie che essi giungano al punto in cui i loro crimini, avendo raggiunto il colmo, debbano essere puniti.

Ebbene, fratelli miei, che cosa pensate voi di tutto ciò, voi, soprattutto, che forse avete concepito il disegno spaventoso di rimanere nel peccato ancora per qualche anno, o forse fino alla morte?

Tuttavia, sono stati questi esempi terribili che hanno portato tanti peccatori ad abbandonare il peccato, per fare penitenza, che hanno popolato i deserti di solitari, che hanno riempito i monasteri di santi religiosi, e che hanno fatto salire tanti martiri sul patibolo, con maggiore gioia, di quella dei re sui loro troni, per timore di sperimentare gli stessi castighi.

Se avete qualche dubbio, ascoltatemi un istante, e se non siete ancora induriti fino al punto che Dio vi abbandoni a voi stessi, sentirete il rimorso della vostra coscienza risvegliarsi e lacerarvi l’anima.

San Giovanni Climaco ci racconta che egli andò un giorno in un monastero; i religiosi che lo abitavano, avevano un tale senso della grandezza della Giustizia divina, impresso nei loro cuori, avevano un tale timore di essere giunti a quello stato in cui i nostri peccati abbiano stancato la Misericordia di Dio, che la loro vita sarebbe stata per voi uno spettacolo capace di farvi morire di spavento.

Essi conducevano una vita così umile, così mortificata, e così crocifissa, essi sentivano talmente il peso delle loro colpe, le loro lacrime erano così abbondanti e le loro grida così penetranti, che, quand’anche si fosse avuto il cuore più duro di una pietra, non si sarebbe potuto non versare lacrime.

«Appena ho aperto la porta del monastero, ci dice lo stesso santo, ho visto delle azioni veramente eroiche; ho sentito delle grida capaci di fare violenza al Cielo; vi erano dei penitenti che condannavano se stessi a restare per tutta la notte sulla punta dei piedi, e quando il loro povero corpo crollava dalla stanchezza, essi si rimproveravano il loro lassismo: “Disgraziato, si dicevano, se hai così poco coraggio per soddisfare alla Giustizia di Dio, come potresti sopportare le fiamme vendicatrici dell’altra vita?».

Altri poi, restando sempre con gli occhi e le mani levati verso il cielo, lanciavano delle grida capaci di farvi sciogliere in lacrime, tanto essi erano penetrati dalla gravità dei loro peccati.

Altri si facevano legare con le mani dietro la schiena, come dei criminali; essi si credevano indegni di guardare il cielo, e si gettavano con la faccia per terra: «Ah! mio Dio! gridavano, accogli, per favore, le nostre lacrime e il nostro dolore».

Vi erano di quelli coperti completamente di ulcere; il loro povero corpo era talmente imputridito ed esalava un odore così nauseante, che era impossibile restare vicino a loro, senza morire.

C’erano di quelli che non bevevano un po’ d’acqua se non per impedirsi di morire; essi avevano sempre l’immagine della morte davanti agli occhi; essi si dicevano, gli uni gli altri: «Ah! fratelli miei, che ne sarà di noi? Credete che stiamo avanzando almeno un po’ nella virtù?».

Corriamo, amici miei, nella corsa della penitenza, uccidiamo questi maledetti corpi, come essi hanno ucciso le nostre povere anime (cfr. 1 Corinzi 9,27!; è ovvio che il santo curato, iper-emotivo, nella sua foga oratoria, stia esagerando, ma ci conviene riflettere sulla nostra poca voglia di fare penitenza, in nome dell’impostura demenziale, in voga ai nostri giorni, che bisogna vivere nella gioia, “da risorti”, dimenticando che prima bisogna morire e uccidere l’uomo vecchio, e che soltanto da ciò che nasce la “vera” gioia; n.d.a.).

Ma la cosa più terribile era che, quando uno di essi era prossimo a uscire da questo mondo, tutti i religiosi, essendo presso il moribondo, con i volti abbattuti, e gli occhi bagnati di lacrime, si rivolgevano a lui, dicendo: «Che cosa pensi di te, adesso che stai per morire?
Speri tu e credi, che le tue lacrime, il tuo dolore e le tue penitenze, ti abbiano meritato il perdono?
Non temi di sentirti dire quelle terribili parole, dalla bocca di Gesù Cristo stesso:
Allontanati da me, maledetto, vai nel fuoco eterno?».
«Ahimè! rispondeva quel povero moribondo, che ne sappiamo se le nostre lacrime abbiano piegato la giusta collera di Dio? Che ne sappiamo se i nostri peccati sono scomparsi agli occhi di Dio? (cfr. Ebrei 10,28-31!). Che possiamo fare, se non abbandonarci alla Giustizia di Dio?».

Essi pregavano il loro superiore di non dargli sepoltura, ma di gettarli all’aperto, per servire da cibo alle bestie selvatiche; (a parte il genere un po’ horror di questi racconti, l’invito che dobbiamo cogliere è quello di non dormire troppo sugli allori, cullandoci nell’illusione, in voga ai nostri giorni, di salvarci scherzando, danzando e organizzando spettacoli di beneficenza in TV; n.d.a.).

San Giovanni Climaco ci dice che quello spettacolo lo aveva tanto spaventato, che egli non potè resistere più di un mese in monastero: non riusciva a viverci più.
«Quando, stavo per tornare, ci dice, il mio superiore si accorse che ero talmente cambiato, che mi riconosceva a stento:
Ebbene! fratello mio, mi disse, tu hai visto le fatiche e i combattimenti dei nostri generosi soldati”; io non potei rispondergli se non con le mie lacrime, tanto quel genere di vita mi aveva spaventato e aveva reso il mio corpo debole e disseccato».

Ebbene! fratelli miei, ecco dei cristiani come noi e molto meno peccatori di noi; ecco, fratelli miei, dei penitenti che non aspettavano altro che lo stesso Cielo che attendiamo noi, e che non avevano se non una sola anima da salvare, come noi.

Perchè dunque, fratelli miei, tante lacrime, tanti dolori e tante penitenze?
Ahimè! fratelli miei, è perchè essi sentivano la gravità del peso dei loro peccati, e come l’oltraggio che il peccato fa a Dio sia spaventoso.

Ecco, fratelli miei, ciò che hanno fatto quelli che hanno compreso la grandezza della disgrazia di perdere il Cielo.

O mio Dio! quanti cristiani che mi ascoltano, e che hanno la coscienza carica di peccati, e che non hanno da aspettarsi altra sorte, se non quella dei dannati!
Mio Dio! come possono vivere tranquilli?
Ahimè! com’è infelice colui che ha perso la fede!

Noi affermiamo che, necessariamente, dopo il peccato, bisogna fare penitenza in questo mondo oppure andarla a fare nell’altro.

Se la Chiesa ha stabilito dei giorni di digiuno e di astinenza, lo ha fatto per farci ricordare che, essendo peccatori, dobbiamo fare penitenza, se vogliamo che il buon Dio ci perdoni; e, ancora di più, dobbiamo dire che il digiuno e la penitenza, sono cominciati con l’inizio del mondo.

Guardate Adamo; guardiamo Mosè, che digiunò quaranta giorni.
Guardiamo anche Gesù Cristo, che era la santità in persona, mentre dimora quaranta giorni in un deserto, senza bere nè mangiare, per mostrarci che la nostra vita non deve essere altro che una vita di lacrime, di penitenza e di mortificazione (Luca 6,21.25!).

Ahimè! fratelli miei, dal momento in cui un cristiano abbandona le lacrime, il dolore dei suoi peccati e la mortificazione, addio religione!

Sì, fratelli miei, per conservare in noi la fede, bisogna che siamo sempre occupati a combattere le nostre inclinazioni e a gemere sulle nostre miserie.

Eccovi un esempio che vi mostrerà come dobbiamo stare attenti a non concedere alle nostre inclinazioni tutto quello che ci chiedono.

Leggiamo nella storia che c’era uno sposo che aveva una sposa molto virtuosa e un figlio che seguiva le sue tracce.
Essi facevano consistere tutta la loro felicità nella preghiera e nella frequenza dei sacramenti.
Nel santo giorno di domenica, dopo gli uffici liturgici, essi non avevano altra occupazione e altro piacere, se non quello di fare del bene; andavano a visitare i malati, e fornivano loro tutto l’aiuto di cui erano capaci.

Tornati a casa, passavano il tempo a fare delle letture di pietà, capaci di animarli nel servizio di Dio.

Nutrivano così le loro anime nella grazia di Dio, ciò che costituiva tutta la loro felicità.
Ma, siccome il padre (dello sposo) era un empio e un libertino, egli non smetteva di biasimarli, e di prendersi gioco di loro, dicendo che il loro genere di vita gli dispiaceva moltissimo, e che quella maniera di vivere conveniva solo a persone ignoranti.
Si impegnava a mettere davanti ai loro occhi i libri più infami e più capaci di distoglierli dal sentiero della virtù nel quale camminavano.

La povera madre piangeva nel sentire questi discorsi, e il figlio ne soffriva da parte sua (il “padre” e la “madre”, indicano i genitori del marito; n.d.a.).
Ma, a forza di vedersi perseguitati, trovando continuamente quei libri davanti a sè, i due coniugi vollero, disgraziatamente, vedere che cosa racchiudessero e, ahimè!, senza accorgersene, presero gusto a quelle letture che erano piene solo di lordure contro la religione e contro i buoni costumi.

Ahimè! i loro poveri cuori, in precedenza ben indirizzati verso il buon Dio, cominciarono ben presto a volgersi verso il male, la loro maniera di vivere cambiò completamente, essi cominciarono ad abbandonare tutte le loro pratiche; non fu più questione di digiuni, nè di penitenza, nè di confessione, nè di comunione, fino al punto che trascurarono del tutto i loro doveri di cristiani.

Il padre, che se ne era accorto, fu molto contento di vederli venire dalla sua parte.
Poichè la madre era ancora giovane, tutta la sua occupazione divenne quella di prepararsi, di frequentare i balli e le commedie, e ogni altro genere di divertimento che potesse trovare.

Il figlio, da parte sua , seguiva le tracce di sua madre: egli divenne in seguito un gran libertino, scandalizzando il suo ambiente, tanto quanto prima lo aveva edificato.
Ormai era questione solo di piacere e di bagordi, in modo che sia la madre che il figlio, facevano delle spese enormi; ben presto i loro beni si assottigliarono.

Il padre, vedendo che piombava nei debiti, volle vedere se le loro sostanze fossero sufficienti a lasciarli continuare in quel genere di vita, del quale egli stesso era stato l’artefice, ma restò alquanto sorpreso allorchè si accorse che i suoi beni non potevano far fronte ai suoi debiti.

Allora una sorta di disperazione si impadronì di lui, e un bel mattino si alza, a sangue freddo e dopo aver riflettuto, carica la pistola, entra nella camera di sua moglie, e le brucia il cervello; poi passa nella camera del figlio, gli scarica il secondo colpo, e il terzo fu per se stesso.

Ah! padre disgraziato! se avessi almeno lasciato quella povera donna e quel povero figlio nella preghiera, nelle lacrime e nella penitenza, tutto si sarebbe concluso con il Cielo, mentre adesso tu li hai gettati nell’inferno, piombandoci anche tu insieme a loro!

Ebbene! fratelli miei, quale fu la causa di questa grande disgrazia, se non il fatto che avevano smesso di praticare la nostra santa religione?

Ahimè! fratelli miei, quale castigo può essere paragonabile a quello di un’anima, alla quale il buon Dio toglie la fede, in punizione dei suoi peccati?

Sì, fratelli miei, se vogliamo salvare le nostre anime, la penitenza ci è tanto necessaria, per perseverare nella grazia di Dio, quanto il respiro lo è per vivere, per conservare la vita del corpo.

Sì, fratelli miei, dobbiamo essere fortemente persuasi che, se vogliamo che la nostra carne sia sottomessa al nostro spirito e alla ragione, bisogna necessariamente mortificarla; se vogliamo che il nostro corpo non faccia guerra alla nostra anima, dobbiamo mortificarlo con tutti i suoi sensi; se vogliamo che la nostra anima sia sottomessa a Dio, dobbiamo mortificarla con tutte le sue potenze (nella teologia classica, le tre potenze dell’anima sono: intelletto, memoria e volontà; n.d.a.).

Leggiamo nella Sacra Scrittura che, allorchè il Signore comandò a Gedeone di andare a combattere contro i Madianiti, gli ordinò di comandare a tutti i suoi soldati più timidi e paurosi, di ritirarsi.
Molte migliaia si ritirarono. Ne rimasero solo diecimila.
Il Signore disse a Gedeone: «Hai ancora troppi soldati; fai una piccola verifica, e osserva tutti coloro che prenderanno l’acqua soltanto con la mano, per portarla alla loro bocca, ma senza fermarsi; sono questi coloro che condurrai al combattimento».
Di diecimila, non ne rimasero che trecento.
Lo Spirito Santo ci da quest’esempio per farci vedere come ci siano poche persone che praticano la mortificazione, e che si salveranno (Giudici 7).

E’ vero, fratelli miei, che la mortificazione non consiste tutta nella privazione del bere e del mangiare, sebbene sia molto necessario non accordare al nostro corpo tutto quello che ci chiede.
San Paolo ci dice: «Io tratto duramente il mio corpo, per timore che, dopo aver predicato agli altri, non sia scartato io stesso».

Ma è certo anche, fratelli miei, che una persona che ama i suoi piaceri, che cerca le sue comodità, che rifugge dalle occasioni di soffrire, che si inquieta, che mormora, che brontola e che si spazientisce per la minima cosa che non vada secondo i suoi desideri e la sua volontà, ha soltanto il nome di cristiano; è buona solo per disonorare la sua religione, poichè Gesù Cristo ci dice: «Colui che vuole appartenere a me, prenda la sua croce e mi segua; rinunci a se stesso; prenda la sua croce, ogni giorno della sua vita, e mi segua» (cfr.Luca 9,23).

E’ fuori dubbio, fratelli miei, che una persona sensuale non possiederà mai quelle virtù che ci rendono graditi a Dio, e ci assicurano il Cielo.
Se vogliamo avere la più bella di tutte le virtù, che è la castità, dobbiamo sapere che essa è una rosa che si coglie tra le spine, e di conseguenza, essa non si incontrerà, come tutte le altre virtù, se non in una persona mortificata.

Leggiamo nella Sacra Scrittura, che l’angelo Gabriele, essendo apparso al profeta Daniele, gli disse: «Il Signore ha ascoltato la tua preghiera, perchè è stata fatta nei digiuni e nella cenere», la cenere ci indica l’umiltà.

Leggiamo nella storia che due missionari gesuiti, essendosi coricati insieme, uno dei due, essendo raffreddato, sputò per tutta la notte sul suo compagno, senza accorgersene.
Al mattino, vedendo che l’altro si lavava, ne fu estremamente dispiaciuto e gli chiese perdono.
Ma l’altro gli disse: «Amico mio, non avresti potuto sputare in un posto più vile, che sputando sopra di me».
Ecco, fratelli miei, un esempio che dimostra fino a quale limite quel buon padre spingeva la sua mortificazione.

«Ma, mi direte voi, quante specie di mortificazioni ci sono?».
Fratelli miei, ecco, ce ne sono due: l’una è interiore, l’altra esteriore, ma vanno sempre insieme.

Quanto alla mortificazione esteriore, essa consiste nel mortificare il nostro corpo, in tutti i suoi sensi.

Anzitutto dobbiamo mortificare i nostri occhi: non guardare niente per curiosità, nè vari oggetti che potrebbero portarci a nutrire qualche pensiero cattivo; non leggere libri che non sono in grado di portarci alla virtù, ma che, al contrario, possono solo distoglierci da essa e spegnere quel po’ di fede che abbiamo.

In secondo luogo dobbiamo mortificare le nostre orecchie: non ascoltare con piacere tutte quelle canzoni, o quei discorsi che possono sedurci, e che non servono a nulla; è sempre un tempo impiegato male e rubato alle cure che dobbiamo somministrare alla nostra anima; non avere mai piacere ad ascoltare le maldicenze e le calunnie.
Sì, fratelli miei, dobbiamo mortificarci in tutto ciò, e non appartenere al numero di quelle persone curiose, che vogliono sapere tutto ciò che si dice, ciò che si fa, da dove si proviene, che cosa si vuole, che cosa ci sia stato detto.

In terzo luogo, diciamo che dobbiamo mortificarci nell’odorato: non avere mai piacere nel sentire ciò che possa soddisfare il nostro gusto.
Leggiamo nella vita di san Francesco Borgia, che egli non aveva mai odorato un fiore, ma che, al contrario, si metteva spesso in bocca delle pillole disgustose, e le masticava, per punirsi per il piacere che avesse potuto provare, sentendo qualche buon odore o mangiando cibi delicati.

In quarto luogo, dico che dobbiamo mortificare la nostra bocca: non dobbiamo mangiare per ingordigia, nè oltre il necessario; non bisogna concedere al corpo niente che possa eccitare le passioni; non mangiare mai fuori dai pasti, senza una vera necessità.
Un buon cristiano non consuma mai un pasto, senza mortificarsi in qualcosa.

In quinto luogo, un buon cristiano deve mortificare la propria lingua, non parlando, se non quando sia necessario per adempiere al proprio dovere, per la gloria di Dio e per il bene del prossimo.
Vedete Gesù Cristo: per mostrarci che il silenzio è una virtù che gli è gradita, e per portarci a imitarla, Egli ha conservato il silenzio per trent’anni (durante la “vita nascosta” a Nazaret; n.d.a.).

Guardate la santa Vergine: il Vangelo ci mostra che Ella ha parlato solo quattro voltre, allorchè la gloria di Dio e la salvezza del prossimo lo richiedevano.
Ella parlò quando l’angelo le annunciò che sarebbe diventata la Madre di Dio; parlò quando andò a visitare la cugina Elisabetta, per renderla partrecipe della sua felicità; parlò a suo Figlio, quando lo ritrovò nel tempio; parlò alle nozze di Cana, allorchè manifestò a suo Figlio il bisogno di quella gente.

Vediamo anche che, in tutte le comunità religiose, un punto fondamentale delle loro regole è il silenzio; e così sant’Agostino ci dice che “colui che non pecca con la lingua è perfetto (in realtà lo afferma l’autore della Lettera di Giacomo, 3,2; n.d.a.).
Dobbiamo mortificare la nostra lingua, soprattutto quando il demonio ci ispira di dire cattive parole, cattive canzoni, delle maldicenze o delle calunnie contro il nostro prossimo; come pure di fare qualche giuramento o pronunciare parole grossolane.

In sesto luogo, dico che dobbiamo mortificare il nostro corpo, non concedendogli tutto il riposo che vuole, come hanno fatto tutti i santi.

Inoltre, abbiamo detto che bisogna praticare anche la mortificazione interiore.
Dapprima, mortifichiamo la nostra immaginazione.
Non dobbiamo lasciarla correre da un luogo all’altro, nè lasciare che si riempia di cose inutili, e, soprattutto, non lasciarla andare a passeggio su delle cose che potrebbero indurla al male, come per esempio, pensando a certe persone che abbiano commesso qualche cattivo peccato contro la santa virtù della purezza, come pure ai giovani che si sposano: tutto ciò non è altro che una trappola che il demonio ci tende, per condurci al male (pur nella sua solita esagerazione, il curato ci ricorda che l’astuto serpente si insinua nella mente, non tanto attraverso le brecce, ma attraverso le piccole fessure; n.d.a.).

Ogni volta che il demonio si presenta con questi pensieri, dobbiamo respingerlo.
Non dobbiamo lasciare nemmeno che occupi la nostra immaginazione con pensieri come: “chissà cosa diverrei, o che farei, se fossi..., se avessi questo o quello, se mi regalassero quella cosa, se potessi guadagnare tanto”.
Tutte queste cose non servono ad altro che a farci perdere il tempo che dovremmo impiegare per pensare a Dio e alla salvezza della nostra anima.

Dobbiamo, al contrario, occupare la nostra immaginazione, pensando ai nostri peccati, per gemere e correggercene; dobbiamo pensare spesso all’inferno, per lavorare ad evitarlo; dobbiamo pensare spesso al Cielo, per vivere in modo da meritarlo; dobbiamo pensare spesso alla morte e alla passione di Nostro Signore Gesù Cristo, per aiutare noi stessi a sopportare i mali della vita in spirito di penitenza.

Dobbiamo mortificare anche il nostro spirito: non voler mai esaminare se la nostra religione non sia buona, nè voler cercare di comprendere i misteri, ma soltanto ragionare sulla maniera più sicura che dobbiamo adottare, per piacere a Dio, e salvare la nostra anima (santo “pragmatismo” del santo curato...; n.d.a.).

Inoltre, dobbiamo mortificare la nostra volontà, cedendo alla volontà degli altri, quando la nostra coscienza non ne venga compromessa.
Ma dobbiamo farlo, senza mostrare che questo ci procura pena, ma, al contrario, essere contenti di trovare un’occasione per mortificarci, affinchè possiamo espiare i peccati della nostra volontà.

Ecco, fratelli miei, in generale, le piccole mortificazioni che possiamo praticare ad ogni istante, come pure dobbiamo sopportare i difetti e i cattivi costumi di coloro con i quali viviamo.

E’ sicuro, fratelli miei, che le persone che cercano solo di appagarsi nel bere, nel mangiare e nei piaceri che il loro corpo o il loro spirito possano desiderare, non potranno mai piacere a Dio, poichè la nostra vita deve essere un’imitazione di Gesù Cristo.

Allora vi chiedo: quale somiglianza si potrebbe mai trovare tra la vita di un ubriaco, e quella di Gesù Cristo, che ha trascorso la sua vita nel digiuno e nelle lacrime; tra quella di un impudico, e la purezza di Gesù Cristo; tra un vendicativo, e la carità di Gesù Cristo, e così via.

Ahimè! fratelli miei, che ne sarà di noi, quando Gesù Cristo confronterà la nostra vita con la sua?
Facciamo almeno qulche cosa che possa piacergli.

Abbiamo detto, iniziando, che la penitenza, le lacrime e il dolore dei nostri peccati, ci consoleranno grandemente nell’ora della nostra morte, cosa che non può essere messa in dubbio.
Quale felicità per un cristiano, in quel momento estremo, nel quale si fa così bene il proprio esame di coscienza, ricordarsi di avere, non solo, osservato bene i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma di aver trascorso la propria vita tra le lacrime e la penitenza, nel dolore dei propri peccati, e in una continua mortificazione di tutto ciò che poteva appagare i propri desideri.
In quel momento, se dovessimo avere qualche timore, potremo dire, con sant’Ilarione: «Che cosa temi, anima mia? E’ da tanti anni che fatichi, per fare la Volontà di Dio e non la tua! abbi fiducia, il Signore avrà pietà di te».

Per farvelo meglio comprendere, vi citerò un bell’esempio.
San Giovanni Climaco ci dice che vi era un giovane che aveva concepito un grande desiderio di trascorrere la propria vita a fare penitenza, e a prepararsi alla morte; egli non poneva limiti alle sue penitenze.
Quando arrivò la morte, egli fece chiamare il suo superiore, dicendogli: «Ah! padre mio, quale felicità per me! Oh! come sono felice di essere vissuto in mezzo alle lacrime, nel dolore dei miei peccati e nella penitenza.
Il buon Dio, che è così buono, mi ha promesso il Cielo.
Addio, padre mio! vado a riunirmi al mio Dio, di cui ho cercato di imitare la vita, quanto più mi è stato possibile; addio, padre mio! ti ringrazio di avermi incoraggiato a camminare per questa strada felice!» (la strada della mortificazione è anche la strada della vera felicità, in linea con quanto afferma Gesù nelle Beatitudini; n.d.a.).

Fratelli miei, quale felicità per noi, in quel momento, se siamo vissuti per il nostro Dio; se abbiamo fuggito e temuto il peccato, se ci siamo privati, non solo dei piacerei cattivi e proibiti, ma anche di quelli permessi e innocenti; se abbiamo frequentato spesso e degnamente i sacramenti, nei quali abbiamo trovato la grazia e la forza per combattere il demonio, il mondo, e le nostre cattive inclinazioni.

Ma ditemi, fratelli miei, che cosa potrebbe sperare, in quel momento spaventoso, un peccatore che vedesse davanti a sè una vita, che non è altro che una catena di crimini?

Che cosa si potrebbe sperare, per un peccatore che sia vissuto, pressappoco, come se non avesse affatto un’anima da salvare, e come se credesse che con la morte tutto è finito; che non ha quasi mai frequentato i sacramenti e che, tutte le volte che li ha frequentati, non ha fatto altro che profanarli con le sue cattive disposizioni interiori; un peccatore che, non contento di aver deriso e disprezzato la propria religione, e coloro che avevano la fortuna di praticarla, ha impiegato anche tutti i suoi sforzi, per trascinare gli altri a camminare sulla sua strada di infamia e di libertinaggio?

Ahimè! quale terrore e quale disperazione, per questo povero disgraziato, dover riconoscere che non è vissuto per nient’altro, se non per far soffrire Gesù Cristo, per perdere la sua povera anima, e piombare nell’inferno!

Mio Dio! quale infelicità! Tanto più che egli sapeva bene che avrebbe potuto ottenere il perdono dei suoi peccati, se lo avesse voluto.
Mio Dio, quale disperazione per tutta l’eternità!

Ecco un esempio mirabile che ci mostra che, se ci saremo dannati, sarà soltanto perchè non abbiamo voluto salvarci.

Si racconta nella storia che santa Taide era stata nella sua giovinezza una delle più famose cortigiane esistite sulla faccia della terra, sebbene fosse cristiana.
Ella si precipitava su tutto ciò che il suo cuore, che non era altro che un braciere di fuoco impuro, potesse desiderare: ella profanò nel divertimento illecito tutto ciò che il Cielo le aveva donato, sia spiritualmente che come bellezza fisica.

La sua stessa madre fu lo strumento di cui l’inferno si servì per prostrarla con un furore spaventoso fra tante lordure, che la sua povera giovinezza trascorse tra le sregolatezze più infami e più disonorevoli, per una persona come lei.

Alcuni si rovinavano per farle dei regali, altri si accoltellarono solo per non averla potuta possedere.
Insomma, la sregolatezza di questa commediante era lo scandalo di tutta la provincia, e un oggetto di dispiacere per tutta la gente per bene.

Vi lascio immaginare il male che faceva, le anime che faceva perdere, gli oltraggi che faceva a Gesù Cristo, a causa delle persone che trascinava nel peccato.
Ella era stata molto istruita nella sua giovinezza, ma i suoi disordini e la violenza delle sue passioni avevano soffocato in lei tutte le verità della religione.

Tuttavia il buon Dio voleva manifestare la grandezza della sua Misericordia, conoscendo come la sua conversione ne avrebbe prodotte molte altre, e gettando su di essa uno sguardo di compassione, andò a cercarla Lui stesso, in mezzo alle lordure più infami.

Per operare questo grande miracolo della sua Grazia, si servì di un santo solitario al quale fece conoscere questa famosa peccatrice e tutte le sue sregolatezze.

Il Signore gli ordinò di andare a trovare questa cortigiana. Il solitario era san Pafnuzio.
Egli si travestì da cavaliere, si rifornì di denaro, e partì per la città dove quella aveva posto la sua dimora.
Siccome quello era giudato da Dio stesso, arrivò diritto dove lei si trovava, e le chiese di parlarle.

Quella creatura, che non sapeva nulla di tutto ciò, lo condusse in una camera appartata e bene ornata.
Allora il santo le chiese se non ne avesse un’altra più appartata, dove egli potesse nascondersi agli occhi di Dio stesso.

«E che? le disse la cortigiana, stai certo che non verrà nessuno, ma se tu temi la Presenza di Dio, non sai forse che Egli è dappertutto?».
Il santo fu molto meravigliato di sentirla parlare del buon Dio.
«E che? le rispose, forse che tu conosci il buon Dio?».
«Sì, le disse quella, e ben più, io so che c’è un Paradiso per coloro che lo servono con fedeltà, e un inferno per coloro che lo disprezzano».
«Ma come, le dice il santo, con tutte queste conoscenze che hai, come puoi vivere come stai facendo, e per tanti anni, preparando a te stessa un inferno?».

Queste uniche parole del santo, congiunte alla grazia del buon Dio, furono un colpo di fulmine che rovesciò la nostra cortigiana, come san Paolo sulla via di Damasco.
Ella si gettò ai suoi piedi, sciogliendosi in lacrime e pregandolo, per favore, di avere pietà di lei, e di chiedere misericordia per lei presso il Signore.
Si diceva pronta a fare tutto ciò che voleva, per cercare di farsi perdonare ancora dal buon Dio.
Gli chiese solo un intervallo di tre ore, per mettere in ordine le sue cose: subito dopo si sarebbe recata nel posto che le avesse indicato, per non pensare più ad altro, che a piangere i suoi peccati.

Avendole il santo accordato questa dilazione, ella radunò il maggior numero possibile di libertini che si erano immersi con lei nel peccato, e li condusse sulla pubblica piazza, e lì, alla loro presenza si spogliò di tutti i suoi ornamenti.
Fece portare i mobili che aveva acquistato con il denaro delle sue infamie, ne face un ammasso, e vi appiccò il fuoco, senza parlare e senza dire perchè si comportasse così.

Dopo di ciò, ella lasciò la piazza per andare dal santo che la attendeva e che la condusse in un monastero di donne.
Egli la chiuse in una cella di cui sigillò la porta, e pregò una religiosa di portarle qualche pezzetto di pane e un po’ d’acqua.

Taide chiese al santo quale preghiera ella dovesse fare nel suo ritiro, per commuovere il cuore di Dio.
Il santo le rispose: «Tu non sei degna di pronunciare il Nome di Dio, perchè le tue labbra sono piene di iniquità, nè sei degna di levare verso il Cielo le tue mani criminali: accontentati di volgerti verso oriente, e di’, con tutto il dolore del tuo cuore e l’amarezza della tua anima: “O Tu che mi hai creata, abbi pietà di me!».

Fu questa tutta la preghiera che ella fece per i tre anni durante i quali restò chiusa in quel buco, senza mai dimenticarsi dei suoi peccati.
Ella pianse tanto, maltrattò così duramente il suo corpo che, quando san Pafnuzio andò a consultare sant’Antonio, per sapere se il buon Dio le avesse fatto misericordia, sant’Antonio, dopo aver trascorso la notte in preghiera con i suoi religiosi, a tale scopo, gli disse che il buon Dio aveva rivelato a uno dei suoi religiosi, che si chiamava san Paolo il semplice, che un trono splendido era stato preparato nel cielo, per la penitente Taide.

Allora il santo, pieno di gioia e di ammirazione, per il fatto che in così poco tempo ella avesse soddisfatto alla Giustizia di Dio, la va a trovare per dirle che i suoi peccati le erano stati perdonati e che poteva abbandonare la sua cella.
Il santo le chiese che cosa avesse fatto in quei tre anni, ed ella le rispose: «Padre mio, ho posto i miei peccati davanti a me, facendone un mucchio, e non ho mai smesso di piangerli e di chiedere misericordia».
«E’ precisamente per questo, le disse san Pafnuzio, che tu hai conquistato il cuore di Dio, e non per le altre penitenze».

Avendo abbandonato la sua cella per entrare in monastero, ella non sopravvisse oltre quindici giorni, dopo i quali andò a cantare nel Cielo la grandezza della Misericordia di Dio.

Fratelli miei, quest’esempio ci mostra come potremmo conquistare subito il cuore di Dio, se lo volessimo, senza dover fare grandi penitenze.
Quanti rimpianti, per tutta l’eternità, per non aver voluto fare qualche violenza a noi stessi, per abbandonare il peccato!

Sì, fratelli miei, un giorno vedremo che avremmo potuto soddisfare alla Giustizia di Dio con nient’altro che con quelle piccole miserie della vita, che siamo costretti a sopportare nello stato in cui il buon Dio ci ha posto, aggiungendovi nello stesso tempo qualche lacrima e un sincero dolore dei nostri peccati.

Quanti rimpianti avremo per essere vissuti ed essere morti nel peccato, allorchè vedremo che Gesù Cristo ha tanto sofferto per noi, e che avrebbe tanto desiderato perdonarci, se gli avessimo chiesto perdono!
Mio Dio! com’è cieco e disgraziato il peccatore!

Noi temiamo di fare penitenza. Ma vi mostrerò, fratelli miei, la maniera in cui ci si comportava verso i peccatori, agli inizi della Chiesa.
Coloro che volevano riconciliarsi con il buon Dio, si recavano, il mercoledì delle ceneri, alla porta della chiesa, con degli abiti sporchi e lacerati.
Entrati in chiesa, gli si copriva la testa di cenere, gli si dava un cilicio che avrebbero dovuto portare per tutto il tempo in cui doveva durare la loro penitenza.
Dopo di ciò, gli si ordinava di prostrarsi per terra, e in quel momento si cantavano i sette salmi penitenziali, per implorare su di loro la Misericordia di Dio; in seguito si rivolgeva loro un’esortazione per impegnarli a dedicarsi alla penitenza, con tutto lo zelo possibile, sperando che forse il buon Dio si sarebbe lasciato commuovere.

Dopo tutto ciò, li si avvertiva che sarebbero stati scacciati dalla chiesa, come Dio cacciò Adamo dal Paradiso terrestre, dopo il peccato.
Non appena erano usciti, si chiudevano le porte della chiesa.

Ma se desiderate sapere come essi trascorressero quel tempo, quanto durasse quella penitenza, ecco: dapprima venivano ordinariamente obbligati a vivere ritirati, oppure ad occuparsi dei lavori più penosi; c’erano alcuni giorni della settimana, durante i quali dovevano digiunare a pane e acqua, a seconda del numero e della gravità dei loro peccati; dovevano fare lunghe preghiere durante la notte, prostrati con la faccia a terra; si coricavano su delle tavole, e si alzavano diverse volte durante la notte, per piangere i loro peccati.

Li si faceva passare attraverso diversi gradi di penitenza; la domenica, comparivano sulla porta della chiesa vestiti di cilicio, con la testa coperta di cenere, restando fuori, esposti al cattivo tempo.
Essi si prostravano davanti ai fedeli che entravano in chiesa, scongiurandoli, con le lacrime, di pregare per loro.

Dopo un certo tempo, ricevevano il permesso di ascoltare la Parola di Dio, ma, non appena terminava l’istruzione, li si scacciava dalla chiesa; parecchi di loro venivano ammessi alla grazia dell’assoluzione sacramentale, soltanto nell’ora della morte.

Eppure, essi consideravano tutto ciò come una grande grazia che la Chiesa faceva loro, dopo aver trascorso dieci anni, vent’anni, e, talvolta ancora di più, nelle lacrime e nella penitenza.
Ecco, fratelli miei, come la Chiesa si comportava in altri tempi, verso i peccatori che volevano semplicemente convertirsi.

Se ora, fratelli miei, volete sapere chi fossero quelli che si sottomettevano a queste penitenze, io vi risponderò: tutti, dai pastori agli imperatori.
Se ne volete un esempio, eccovene uno, nella persona dell’imperatore Teodosio.
Avendo peccato, più per sorpresa che per malizia, sant’Ambrogio gli scrisse dicendogli: «Ho visto questa notte in una visione, che il buon Dio mi ha mandato, che tu venivi in chiesa, ma Egli mi ha ordinato di proibirti di entrare».

L’imperatore, leggendo quella lettera, pianse amaramente; tuttavia, andò a prostrarsi alla porta della chiesa, come era usanza, con la speranza che le sue lacrime e il suo pentimento avrebbero commossso il santo vescovo.

Quando sant’Ambrogio lo vide arrivare, gli disse: «Fermati, imperatore, tu non sei degno di entrare nella casa del Signore».
L’imperatore gli disse: «E’ vero, ma anche Davide aveva molto peccato, ma il Signore lo perdonò».
«Ebbene, gli disse sant’Ambrogio, poichè lo hai seguito nel suo peccato, seguilo anche nella sua penitenza».

L’imperatore, a queste parole, senza dire nulla, si ritira nel suo palazzo, si toglie i suoi ornamenti imperiali, si prostra con la faccia a terra, si abbandona a tutto il dolore di cui il suo cuore era capace.
Restò otto mesi, senza mettere piede in chiesa.
Quando vedeva che i suoi domestici vi andavano, mentre lui ne era privato, lo si sentiva emettere delle grida capaci di commuovere i cuori più induriti.
Quando gli permettevano di assistere alle preghiere pubbliche, egli si poneva non come gli altri, ma in ginocchio, col volto prostrato verso terra, nel modo più toccante, percuotendosi il petto, strappandosi i capelli e piangendo amaramente.
Egli conservò per tutta la vita il ricordo del suo peccato; non poteva pensarci, senza versare lacrime.

Ebbene! fratelli miei, ecco cosa fece un imperatore che non voleva perdere la sua anima
( Il curato ha voluto evidentemente esagerare, per ottenere un forte contrasto tra il racconto delle presunte usanze della chiesa antica verso i penitenti, e la facilità che i suoi parrocchiani avrebbero avuto nel fare penitenza, come lui stesso aveva detto prima, accettando le semplici miserie e contrattempi della vita ordinaria, senza grandi sacrifici.
Non bisogna dimenticare che il santo, a volte alquanto petulante ed estremamente prolisso, bisogna ammetterlo, si prefiggeva di scuotere le rozze coscienze dei suoi parrocchiani campagnoli, che, a dirla tutta, non erano di certo più rozze e grossolane delle coscienze degli esseri umani più “evoluti”, del ventunesimo secolo.
Quanto a Teodosio, la penitenza fu alquanto lieve, tenuto conto del danno che avrebbe poi fatto alla chiesa con le leggi che ne deformarono per secoli l’identità evangelica originaria!...;n.d.a.).

Che dobbiamo concludere, fratelli miei?
Ecco: poichè dobbiamo necessariamente piangere i nostri peccati, farne penitenza o in questo mondo o nell’altro, scegliamo quella meno rigorosa e meno lunga.

Quale rammarico, fratelli miei, giungere alla morte senza aver fatto nulla per soddisfare alla Giustizia di Dio!
Quale disgrazia, aver perso tanti mezzi che avevamo per soffrire qualche miseria che, se li avessimo adoperati bene, per amore del buon Dio, ci avrebbero meritato il perdono!
Quale disgrazia, essere vissuti nel peccato, sperando sempre che lo avremmo abbandonato, per poi morire senza averlo fatto!

Ma prendiamo un’altra strada, fartelli miei, che ci consolerà di più in quel momento; cessiamo di fare il male, cominciamo a piangere i nostri peccati e soffriamo tutto ciò che il buon Dio vorrà mandarci.

Che la nostra vita non sia altro che una vita di rammarico, di pentimento per i nostri peccati, e sia piena di amore di Dio, affinchè abbiamo la felicità di andare ad unirci al buon Dio, per tutta l’eternità.
E’ quello che vi auguro.